Comprensorio dell'Amiata
La montagna sacra, il vulcano della Toscana meridionale
Luogo dal grande fascino, ricco di tradizioni popolari e prodotti enogastronomici di grande pregio. Splendidi percorsi di trekking immersi nella natura incontaminata e rigogliosa, ma anche suggestivi borghi medievali, pievi e castelli poco conosciuti e di grande fascino. In particolare meritano una visita Arcidosso, Santa Fiora, Sempronianocon il Giardino di Daniel Spoerri, Abbadia San Salvatore e Castel del Piano.
Approfondimenti
La castagna del Monte Amiata
Nominare l'Amiata rievoca nella mente l’immagine di secolari castagni e visitare i castagneti e assaggiare i piatti cucinati con le castagne significa ripercorrere la storia del popolo amiatino che ancora oggi cura il bosco con le sue mani rendendo questo frutto genuino e meritevole della denominazione "IGP".
Questo particolare frutto era già usato e apprezzato dagli antichi ma il castagno veniva coltivato anche perché forniva eccellente legname, cibo per gli animali, con le foglie secche si riempivano materassi e con il legname più fino si facevano ceste e corbelli. Sull’Amiata i documenti medievali dell'Abbazia di San Salvatore risalgono già all’VIII° secolo e ne testimoniano la lunghissima tradizione locale mentre documenti del XV°/ XVI° secolo già testimoniano interventi di tutela e sostegno a questa importante risorsa della montagna poiché gli statuti proibivano il danneggiamento ed il taglio di piante verdi e secche se non previa autorizzazione rilasciata dalle autorità locali. La Castagna del Monte Amiata IGP presenta una forma ovale. Di grandi dimensioni, si caratterizza per l’apice poco pronunciato ed il colore rossastro con striature più scure. Il seme è di colore crema chiaro, con la pellicola facilmente asportabile. Il sapore è dolce e delicato. L’elevato valore nutritivo rende la castagna un valido sostituto del pane e per questo è sempre stata considerata “il pane della povera gente”, per diversi secoli la dieta dei montanari si è basata sulla polenta di castagne e molti altri piatti si preparavano proprio con la farina di castagne. Il metodo tradizionale per conservare le castagne è la cosiddetta “curatura”, ossia l’immersione in acqua fredda per un periodo di 5-6 giorni e successiva asciugatura su di un pavimento in cotto, in ambiente asciutto e ventilato. I frutti, lessati o arrostiti (caldarroste), si sposano perfettamente con vini dolci moscati, con il gelato e le creme. Possono essere essiccate e trasformate in farina, per la realizzazione del “castagnaccio” e della polenta di castagne e sull’Amiata viene anche aggiunta all’impasto di dolci, pasta fresca e perfino di una birra alle castagne davvero speciale.
Abbazia di San Salvatore
La tradizione racconta che nel 762 la potente Abbazia sia stata fondata dal re longobardo Ratchis. Secondo la leggenda il re, durante una partita di caccia nel mese di maggio del 742 d.C., avrebbe avuto la visione del Salvatore sulla cima di un abete, fatto questo che lo avrebbe indotto ad edificare un luogo di culto in quel punto.
Più probabilmente invece la fondazione fu opera del duca friulano Erfone che, assieme al fratello Marco ed altri religiosi benedettini, edificarono l'antico monastero e l'abbazia, chiamata anche "Chiesa delle Colonne". L’Abbazia visse il suo momento di maggior splendore dal X al XII secolo, quando i pellegrini percorrevano numerosi la Via Francigena. Ricostruita intorno al 1035 in forma romanica, con una facciata alta e stretta e due campanili, di cui uno rimasto incompiuto. La parte però che rende unico questo luogo è l’imponente cripta a selva di colonne, più antica della chiesa, dove si trovano ben trentadue colonne con capitelli ciascuno decorato in modo diverso, con animali, piante, motivi geometrici. L'abbazia ha ospitato per quasi mille anni il Codex Amiatinus o Bibbia Amiatina, la più antica copia manoscritta della Bibbia in latino. Affascinante e ricca di mistero la storia di questo antichissimo manoscritto. Realizzato in tre copie a partire dal 692 per volontà di Ceolfrid, abate di Wearmouth nel Regno di Northumbria, richiese anni di lavoro. L'originale acquisito a Roma era un codice della Vulgata nella versione dell'antiqua translatio corretta personalmente da san Girolamo, forse il codex grandior prodotto nel VI secolo al monastero calabro di Vivarium per volontà dell'erudito abate Cassiodoro. Per rendere idea dell'impegno nella realizzazione dell'opera, il monastero si assicurò i diritti su terre aggiuntive per poter allevare i 515 capi di bestiame necessari a ricavare la quantità di pergamena richiesta (fonte Lawrence Nees- Early Medieval Art). Ancora più misteriosa la storia successiva: infatti le due copie rimaste in Inghilterra giungono a noi in forma frammentaria, mentre la copia tornata in Italia è intatta. Lo stesso abate Ceolfrid, ormai avanti con gli anni, si incamminò in direzione di Roma portando con sé la Bibbia con l'intenzione di donarla al Papa Gregorio II°. Ceolfrid morì durante il viaggio nell'odierna Borgogna e la Bibbia scomparve, per riapparire circa un secolo dopo nell'abbazia di San Salvatore, dove rimase custodita per quasi mille anni. Enorme il valore artistico e storico dell’opera basti ricordare che fu utilizzata per edizione sisto-clementina della Vulgata. Attualmente è conservata nella Biblioteca Laurenziana di Firenze
Giardino di Daniel Spoerri
Il Giardino di Daniel Spoerri è un parco davvero unico, aperto al pubblico nel 1997, si estende per circa 16 ettari sul territorio del Monte Amiata c'è un Parco in continua evoluzione grazie alla dedizione dell'eclettico artista svizzero che lo ha realizzato negli anni '90.
Daniel Spoerri, il quale si è avvalso della collaborazione di importanti artisti contemporanei, come Eva Aeppli, Arman, Erik Dietman e Jean Tiguely. Daniel Spoerri, dopo aver vissuto a New York, a Simi, a Düsseldorf, Parigi ed in altre parti del mondo, arrivò negli anni novanta in Toscana, prima ad Arcidosso e poi a Seggiano nel 1992. Morte e Eros sono temi che tornano spesso nel Giardino (per es. »Albero dei crani e Il diavolo e la donna impudica« di Daniel Spoerri). Altre opere si confrontano con la mitologia (»Venere e Davide tra i respingenti« di Pavel Schmidt), sperimentano con il linguaggio (»Palindromo« di André Thomkins) o si richiamano all’astrologia (il Giardino ospita l’intera opera astrologica di Eva Aeppli). Percorrendo i sentieri del Parco troviamo così, accanto alle suggestive sculture in bronzo del fondatore, come la "Chambre Nr 13" con un peso di oltre 5 tonnellate, divani d'erba, un olivo dorato, giganteschi suonatori di tamburi seguiti da 160 oche, e altre figure misteriose come draghi sputafuoco, nani e guerrieri, in un ricco allestimento fra sogno e realtà. Attualmente sono presenti circa 113 opere di 55 artisti diversi
La leggenda della Fata Petorsola
Tante sono le leggende e le storie che si raccontano sul monte amiata: magia medievale, animali fantastici, antiche divinità, ma a noi piace la leggenda della Regina delle Fate che ci spiega perchè queste magiche donne non si facciano più vedere.
C’era una volta, tanto tempo fa, nel cuore del monte Amiata, arroccato su un picco roccioso dinanzi allo splendido paese tra la Fiora e il fosso Formica, un maestoso castello con quattro solide torri, splendido era il suo aspetto avvolto in un mantello di cristallo. Nessuno sapeva da chi e quando fosse stato costruito e di rara bellezza era la pietra rossa di origine vulcanica con cui era stato costruito, una pietra tanto diversa dal peperino grigio con cui erano costruite le altre abitazioni locali. Anche se nessuno le aveva mai conosciute si sapeva che fosse abitato da sole donne e tra queste la regina delle fate, Petorsola, con la propria figlia e una grande quantità di amiche fate.
In quel tempo le donne di Santa Fiora, così come le donne di tutti i luoghi e mille altri tempi, si incontravano al forno del paese e, nel frattempo che il pane cuoceva, passavano il tempo a parlare delle faccende proprie e, da buone comari, di quelle di chi non era presente. Si narra che spesso si recasse in paese, ma solo per cuocere il pane, anche Petorsola che però non dava confidenza a nessuno: era sempre puntuale, regale e silenziosa e per questo certo non era ben vista dalle altre donne, che al contrario erano chiacchierone, poco eleganti e sempre in ritardo. Come si sa spesso in paese chi si discosta troppo dalla consuetudine diventa subito bersaglio di attenzioni non sempre positive e, un atteggiamento così diligente e severo come quello di Petorsola, non poteva passare inosservato alle comari. Così le ‘compaesane’, irritate da tanto rigoroso contegno, un bel giorno decisero di fare a Petorsola uno scherzo per testare fin dove la sua riservatezza potesse arrivare. Tra una chiacchiera e l’altra mentre infornava il pane, presero sua figlia e finsero di volerla cuocere insieme con le pagnotte. Per la prima volta Petorsola reagì, si infuriò e, strappando la bambina dalle loro mani, tuonò: “Non ho mai visto questa cosa fare, ‘na figlia di fata volerla infornare..!”. Di corsa tornò al castello e, ormai infuriata, per vendetta decise che gli abitanti di Santa Fiora non avrebbe più goduto del bellissimo castello che rendeva unica la vista delle loro finestre, trasformandolo così in un sasso il Sasso di Petorsola, quel masso di origine magica che ancora oggi si staglia solitario sull’alta valle della Fiora.
Ma la storia non finisce qui e arriva ai nostri giorni, le altre fate per portare avanti la battaglia incalzata dalla propria regina contro le comari del paese hanno iniziato a trasformarsi in gatti e vanno in giro a far dispetti. Ancora oggi nella notte si divertono a intrigare le code e i crini dei cavalli e fare ogni sorta di dispetti per le vie del paese e ogni sabato tornano sul loro sasso per consumare i sabba ormai diventate streghe dispettose. Come antidoto contro il loro maleficio ancora oggi si usa tenere esposto nelle stalle lo zigulo, un rametto di ginepro dalle mille e mille foglioline spinose con un fiocco rosso perchè si veda bene in quanto si sa le streghe trovano irresistibile contare ciò che di più piccolo e numeroso si trova sul loro cammino spesso attardandosi fino allo spuntar del sole e dimenticandosi così delle molestie nei confronti dei paesani.
Le Robbiane di Santa fiora
Santa Fiora è una continua scoperta addentrandoci nell’abitato si scopre vicoli, palazzi e si raggiunge la soglia della chiesa delle Sante Flora e Lucilla. Al suo interno si trova un’ importante e unica collezione di terrecotte robbiane. Bassorilievi realizzati con la particolare tecnica della terracotta invetriata.
Tecnica fiorentina legata alla famiglia rinascimentale dei Della Robbia che da loro prende nome e che permetteva di ottenere bianchissime figure stagliate su fondi azzurri e contornate da fregi vegetali di fiori e frutta. La tecnica della terracotta invetriata venne messa a punto verso il 1440 da Luca della Robbia a partire da altri esperimenti di verniciatura. Tramite un processo che assomiglia a quello della fossilizzazione, raggiunge una straordinaria resistenza al tempo e agli agenti atmosferici, caratteristica che la resero uno dei supporti artistici più apprezzati nel Rinascimento. Essa è inoltre uno dei più duraturi metodi per dare policromia alla scultura, e permise la realizzazione anche di vere e proprie pitture "imprigionate" nella ceramica, nonostante l'iniziale limitatezza dei colori disponibili. I colori di base erano infatti l'azzurro e il bianco, rispettivamente usati nella forma più tradizionale per gli sfondi e per le figure. A questi colori si aggiunsero poi il giallo, il verde turchese, il bruno, il nero. La tecnica dei Della Robbia consisteva nel creare un rilievo di terracotta che veniva poi dotata di un rivestimento ceramico policromo e lucente, simile a quello della maiolica, ma molto più sofisticato. Nella bottega si usava uno smalto "stannifero", cioè a base di ossido di stagno, ossido di piombo e sabbie silicee (responsabili dell'effetto vitreo), con un elemento alcalino e vari ossidi metallici per ottenere i diversi colori. Quella di Santa Fiora è una delle più imponenti e significative collezioni di opere robbiane, e, con quelle di Radicofani, unico esempio di arte fiorentina in territorio influenzato dall’arte senese. Originariamente le robbiane, volute dal conte Guido Sforza, ornavano la cappella privata dei conti di Santa Fiora. Le robbiane santafioresi sono delle monumentali pale d’altare di rara bellezza per la semplicità ed eleganza delle immagini, dei colori e l’armonia delle forme. Nella Pieve sono presnti le opere de il Battesimo di Gesù, la Madonna della Cintola, l’Ultima Cena e la Resurrezione (il pulpito), un trittico raffigurante l’incoronazione della Vergine ed i Santi Francesco e Girolamo. Completa il ciclo delle opere un crocifisso ed un tabernacolo degli olii santi.
Tra tutti i bassorilievi conservati il più imponente e interessante è quello raffigurante L’Assunzione della Vergine, nel quale le figure centrali, che si stagliano sul fondo azzurro, sono sormontate da una lunetta con l’Eterno benedicente; in basso, agli spigoli della predella, che contiene delle storie sacre, si trovano gli originali stemmi degli Sforza di Cotignola.’
Il Profeta del Monte amiata, Davide Lazzaretti
L’Amiata, la Montagna Sacra della Maremma, ha il suo Profeta, un personaggio mistico e misterioso che ha predicato sul monte il suo pensiero e che raccolse una comunità di seguaci che hanno venerato il profeta in uno dei luoghi più mistici della nostra terra, il Monte Labro.
Nacque alle pendici del monte Amiata, in Maremma come Davide Lazzeretti e crebbe in una famiglia di barrocciai, La gioventù ordinaria di montanaro viene periodicamente scossa da visioni in cui gli appare un «vecchio frate» ( S. Pietro?). In seguito a queste mistiche esperienze decide di farsi eremita in Sabina, e si chiude in un convento abbandonato presso Montorio Romano, dove si alimenta con un tozzo di pane che gli passa un vecchio eremita tedesco. Un altro suo eremo d'elezione sarà nell’isola di Montecristo nell’Arcipelago Toscano. Nel 1873, tornato da un pellegrinaggio in Francia, modifica il cognome in Lazzaretti, per alludere sia alla resurrezione di Lazzaro (in Giovanni 11, 43) che a un personaggio, Lazzaro Palavicino, di un romanzo di successo di Giuseppe Rovani (per Borroni e Scotti, Milano 1845-46) e forse ad una casata risalente ai re taumaturghi di Francia. Lo stesso avviene con il toponimo monte Labbro (sede dei «fautori» della sua rivelazione), rinominato monte Labaro (scil. vexillum); alla cui sommità fu eretta una nuova chiesa e una simbolica Turris Davidica, costruita a secco in una forma tortile. Esiste una tradizione che lo vuole predestinato al messianesimo fin dalla nascita, con episodi paranormali, da leggenda miracolistica. La sua preveggenza trova una prima forma nello scritto Sogni o visioni nel 1871, che oltre ad essere il resoconto di esperienze personali di vita attiva e contemplativa, risentiva inevitabilmente anche del clima culturale dell’epoca in cui Roma veniva tolta allo Stato Pontificio e infatti proprio Lazzaretti era stato arruolato nella cavalleria piemontese contro le truppe papaline. Lazzaretti per questi episodi venne percepito come un «uomo santo» dalla propria comunità d’origine, una condizione che alimentò il proselitismo in quelle zone di montagna remote e depresse, nelle quali il nuovo Regno d’Italia poteva avere difficoltà ad estendere il controllo statale e perfino la Chiesa, in una prima fase sostenne la sua predicazione. Si accentua così la fase visionaria all’insegna del mistero rivelato, si parla di un' investitura messianica e si predicano i due avventi di Cristo che verranno simboleggiati nello stemma delle due C simmetriche con una croce al centro. Tutti motivi che sarebbero diventati il nucleo forte della futura Chiesa giurisdavidica di Arcidosso, attiva almeno fino al 2002, quando è mancato l’ultimo sacerdote Turpino Chiappini Tra il 1870 e il 1872 La comunità del nostro Davide chiamata anche Santa Lega o della Fratellanza cristiana, si organizza in tre istituti a carattere sociale, religioso ed economico. La nova religione declinata in politica e società si diede delle regole, stampate nel 1871 con l’imprimatur della Chiesa. La comunità di Davide (Chiesa Giurisdavidica) fu un movimento clamoroso e fortemente sociale, si pensi al voto esteso alle donne e all’obbligo scolastico e, per l’aspetto di mutuo soccorso, sfociava in un “comunismo” da Chiesa primitiva. Tuttavia il pensiero Giurisdavidico era un’ideologia che non aveva nulla del socialismo, se non nelle versioni “utopistiche” di questo, ma piuttosto, con il sostrato teologico espresso con la missione dei tre istituti, ricalca le “virtù teologali” di fede, speranza e carità. Nel 1877, con La mia lotta con Dio ossia Il libro dei Sette Sigilli: descrizione e natura delle sette città eterne dove in testa al frontespizio si legge «Cristo duce e giudice, completa redenzione degli uomini», Davide raggiunge il culmine del suo pensiero escatologico-apocalittico: il «cono calcareo» del monte Labaro come la «Città della nuova beata Sionne e Turrisdavidica […] la Città Celeste», la prima delle sette “città eternali” del Regno messianico. Con lo strutturarsi dottrinale del movimento e al suo mescolarsi a vaghi elementi risorgimentali, troviamo spesso Lazzaretti con la camicia rossa da garibaldino o con una bandiera dello stesso colore, la Santa Sede decise di porre un limite dichiarando eretico il pensiero e mettendo all’Indice gli scritti di Lazzaretti. Il Regno d’Italia invece poneva sotto sorveglianza il Profeta e i suoi seguaci, insospettito da slogan come «la Repubblica è il Regno di Dio». Nell’agosto 1878 Lazzaretti, con il suo séguito, decise di scendere dal monte in un corteo variopinto in marcia come in processione per annunciare l’avvento del regno dello Spirito Santo. Davide e i seguaci non avevano il permesso di entrare in paese così dalla pattuglia dei carabinieri furono sparati dei colpi e un di questi proiettili ferì mortalmente Lazzaretti colpendolo alla testa. Il 1° settembre 1878 «L’illustrazione italiana» dava notizia della fine del “messia” dell’Amiata, definendolo «un avanzo del passato smarrito là in un lembo di terra che è della gentile Toscana, ma che per maremme e per monti rimane quasi diviso dalla grande corrente della nuova vita italiana». I 23 seguaci che furono arrestati nell’autunno del 1879 vennero giudicati dalla corte d’assise di Siena con l’accusa di «Attentato contro la sicurezza interna dello Stato»ma furono assolti. E ora del Profeta cosa resta? Studiosi di varie discipline si sono interessati a questa figura: Cesare Lombroso, dopo averne studiato le spoglie, lo annovera tra i monomaniaci, Gramsci lo ricorda nei Quaderni, lo storico inglese Eric Hobsbawm lo vede come un «rivoluzionario primitivo». Nella popolazione locale ha assunto un’aura mistica ed eroica con canzoni, documentari e opere teatrali a lui ispirati. Ad Arcidosso è presente il Centro Studi su Davide Lazzaretti e di grande fascino sono i ruderi sulla cima del Monte Labro, luogo già di per sé di grande bellezza paesaggistica e ambientale.