Arcipelago toscano e Parco nazionale
Le sette perle di Venere
Approfondimenti

La Villa di Giannutri
La grande Villa Domizia fu costruita dalla famiglia dei Domizi Enobarbi uniti alla dinastia imperiale Giulio/Claudia tramite legami matrimoniali. Attraverso l’ultimo erede maschio degli Enobarbi, l’imperatore Nerone, nato col nome di L. Domizio Enobarbo e poi adottato dall’imperatore Claudio che ne aveva sposato la madre vedova, fu aggiunta alle proprietà del patrimonio imperiale.
La tragica conclusione della sua vicenda e l’assenza di eredi fece sì che gli imperatori successivi continuassero di diritto ad amministrare i beni appartenuti agli Enobarbi: buona parte dell’Argentario, il Giglio e Giannutri divennero così territori inclusi nel fiscus Caesaris. I Domizi a Giannutri non risparmiarono le finanze per edificare la loro dimora con una vista mozzafiato sulla costa. La villa infatti copriva una superficie di circa 5 ettari di terreno ed aveva un’enorme terrazza accessibile direttamente dal mare tramite una scalinata. Mentre tracce dell’antico porto romano sono evidenti a Cala dello Spalmatoio, il complesso degli edifici che componevano la villa si dividono in cinque gruppi: il primo su Cala Maestra, costituito da opere portuali e una grande cisterna per l’acqua tuttora in uso, composta da vani comunicanti con un sistema di regolazione del livello del liquido. Il secondo gruppo era formato da magazzini e dimore per i servi. Un terzo complesso di edifici era composto da abitazioni signorili e terme, con pareti dipinte e pavimenti di mosaico. Il quarto gruppo consisteva in abitazioni per la servitù, mentre il quinto era dato dal belvedere della villa che dominava dall’alto tutte le altre costruzioni. Sulla terrazza sorgeva una costruzione con colonne di granito locale, capitelli corinzi e basi di marmo. La villa fu abitata fino alla fine del III secolo quando, abbandonata dai proprietari, cadde lentamente in rovina. I resti attuali furono riportati alla luce nel corso di una campagna archeologica condotta alla fine del 1800.

Vino Ansonaco
Ansonica, Ansonaco o Ansonico? Ansonico è il nome sulle etichette delle bottiglie, Ansonica è il nome del vitigno e Ansonaco è il modo in cui i gigliesi chiamano il loro vino. L’Ansonica è uno dei grandi vitigni del mediterraneo. La sua origine è forse greca o mediorientale ma fu dalla Sicilia che arrivò all’Isola d’Elba verso la fine del 1500.
Dall’Elba si diffuse poi su tutta la costa maremmana e sulle altre isole dell’arcipelago toscano, in particolare all’Isola del Giglio ed è proprio su quest’isola che l’Ansonica ha trovato nel corso dei secoli uno dei suoi territori d’elezione. Un’altra ipotesi vorrebbe che l’Ansonica fosse stata portata all’Isola del Giglio intorno al 1600 direttamente da una comunità greca, inviata al Giglio per ripopolare l’isola dopo le scorribande del pirata Khayr-Ad Din, detto il Barbarossa, che nel 1544 aveva deportato tutti i gigliesi. Fino a quel momento la viticoltura gigliese era nota per la produzione di vini di grande qualità che per mare arrivavano sulle tavole di molte zone costiere, soprattutto quelle dello Stato della Chiesa e della Repubblica di Genova. La famiglia Piccolomini, padrona dell’isola, ripopolò l’isola con famiglie provenienti dal senese ma i nuovi abitanti non si adattano facilmente alle dure condizioni della viticoltura isolana, preferendo dedicarsi alla pesca e all’allevamento. I Medici succedettero ai Piccolomini e con grandi sforzi riuscirono lentamente a far rifiorire la viticoltura gigliese. Nel 1671 la produzione era circa di 2000 barili di “un vino bianco debole, ottenuta dall’uva biancone (trebbiano) pigiato nei palmenti e svinato dopo 24 ore”. Il vino rosso era invece considerato più forte perché, secondo l’usanza del posto, veniva fatto fermentare con l’aggiunta di melograni, usanza che si tramanda dai tempi antichi, allo scopo di dare serbevolezza al vino e maggior contenuto zuccherino al mosto. Dopo secoli di invasioni, pestilenze e carestie verso la fine del '600 la coltivazione della vite ebbe nuovo vigore sull’Isola del Giglio, grazie ad agevolazioni economiche di vario tipo atte a riprendere la coltivazione. Fu verso la fine del '700 che l’Ansonica si affermò come vitigno principale, prendendo il posto di altre uve. L’uva del Giglio divenne così un vitigno apprezzato anche come uva da tavola, conteso dai mercati di Livorno, Civitavecchia, Genova e Firenze; anche Stendhal ne parlò come di un ottimo vitigno e ne lodò la produzione. Particolare testimonianza sono i palmenti che ancora si possono individuare qua e là tra vigneti e pezzi di antiche vigne lasciate ormai incolte. Strutture di piccole dimensioni in cui vi si trovavano una o più vasche e dove l’uva veniva pigiata con i piedi, poi si recuperava soltanto il mosto (o il vino) che veniva trasportato nelle cantine. La vite Ansonica ha foglia verde chiara, pentalobata con seni molto profondi, grappolo grande, tronco conico. Acini grandi ellissoidi che a maturazione prendono una tonalità rosa molto carico. Il vino ottenuto è di colore giallo paglierino, con riflessi verdognoli, profumato, di sapore caldo ed armonico, scarsamente acido. E’ fondamentalmente robusto con una gradazione tendenzialmente alta per un bianco (13/15°). L’Ansonica, oltre a concorrere alla DOC Ansonica Costa dell’Argentario, concorre anche al Maremma Toscana DOC.

San Mamiliano e l’Isola di Montecristo
Il culto del santo, presentato come vescovo, è intimamente connesso con la diffusione del Vangelo nell'Arcipelago Toscano e nella bassa Maremma. È stato uno dei primi evangelizzatori della Toscana ed ancora oggi il suo culto è diffuso tra i marinai delle isole, specialmente all'Elba ed al Giglio, ove è festeggiato al 15 settembre giorno riportato come quello della morte.
È il patrono principale della diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello. Oltre che in tutto l'Arcipelago Toscano, su tutta la costa e l'entroterra maremmano, il santo è venerato anche in Sardegna con il nome di Gemiliano o Geminiano a causa di alcune proprietà monastiche sparse sull'isola. Nell'arcidiocesi di Palermo è celebrato il 16 giugno, data dell'Invenzione delle reliquie a Sovana (per un errore di trascrizione). Dal 1976 è il patrono secondario dell'arcidiocesi di Palermo, dopo essere stato celebrato come patrono principale dal 1625 circa. Il culto è presente anche in Corsica. Caratteristica delle chiese a lui dedicate è l'orientazione che guarda verso Montecristo. Non sappiamo quando sarebbe nato mentre si racconta della morte il 15 settembre del 460 dc sull’Isola di Montecristo. Nato probabilmente a Palermo, ne divenne vescovo ma durante la persecuzione dei Vandali (450), attaccato dagli ariani, fu mandato in esilio da Genserico in Africa, a Cartagine. Ebbe numerosi compagni, anche di esilio, che vissero con lui la vita eremitica, tra cui la tradizione ricorda: santa Ninfa (da lui battezzata, che venne rinchiusa dal padre Aureliano, prefetto di Palermo, nella torre del Palazzo Reale che ancora oggi porta il suo nome) e tre suoi discepoli, Eustochio, Proculo e Gobuldeo , ai quali nella schiavitù africana si aggiunsero: Lustro, Vindemio, Teodosio, Aurelio, Rustico. Riscattato dalla schiavitù dalla pietà dei fedeli o da qualche vescovo africano (forse San Paolino da Nola), si ritirò in Sardegna e infine all'isola di Montecristo dove visse nella cosiddetta grotta di San Mamiliano. Originariamente le spoglie di Mamiliano furono conservate all'Isola del Giglio e a Civitavecchia. Nel 1658, per volere del papa Alessandro VII°, le principali reliquie (parte della calotta cranica) furono traslate da Roma (S. Maria in Monticelli) a Palermo, dove si trovano ancora, nella Cappella delle Reliquie della Cattedrale. Di fatto le reliquie del Santo si trovano oggi sparse tra Palermo, Roma, Pisa, l'Isola d'Elba, Sovana (della quale Mamiliano è protettore) e l'Isola del Giglio. Secondo la leggenda, perseguitato dall’imperatore Diocleziano, San Mamiliano vagò per tutto il Mediterraneo, dalle coste della Tunisia alla Sardegna. Fino a quando approdò su una piccola isoletta quasi sconosciuta chiamata Monte Giove per il culto pagano dedicato alla divinità. Mamiliano pensava di aver trovato finalmente la pace, dopo l’orrore della persecuzione. Invece quella piccola isoletta era gelosamente custodita da un animale feroce: un enorme drago alato che aveva costruito qui la sua “tana” e si cibava dei marinai che colti da tempeste o alla ricerca di acqua vi sbarcavano. Mamiliano non poteva permettere che un creatura empia e simbolo del peccato pagano come un drago vivesse in quel luogo. Ne scaturì una battaglia furibonda. Il Santo affrontò la bestia armato della propria fede e, proprio grazie a Cristo, alla vista della Croce impugnata come arma da Mamiliano il Drago si pietrificò. Nel luogo del Miracolo, sulla vetta del monte, sgorgò una sorgente con la quale il santo battezzò l’isola che da Monte Giove divenne Montecristo. Rimase poi sull’isola e cancellò ogni traccia di Giove che trovasse sostituendola con il nome di Cristo compiendo miracoli ed evangelizzando i marinai. Alla morte dalle vette si alzò una colonna di fumo visibile da grandi distanze che avvisò della morte del Santo le altre isole e la terra ferma. Sull’isola accorsero sia dal Giglio che da altre parti per poter seppellire degnamente il corpo miracoloso, ne scaturì quindi una lite e chi lo tirava di qua e chi lo tirava di là. Il corpo fu smembrato, i Gigliesi portarono così nel loro castello il braccio che aveva ucciso il Drago impugnando la Croce, braccio che continuò a compiere miracoli sull’Isola e ancora la protegge. Il resto del corpo fu diviso in tante reliquie che raggiunsero tante città e chiese.

L’isola di Pianosa
L’isola di Pianosa è un piccolo gioiello dell’Arcipelago Toscano che sorprende il visitatore con la sua ricca storia, le sue spiagge e le cale dalle trasparenze tropicali, i suoi edifici e i monumenti sorprendenti. Anticamente era conosciuta come isola di Planasia o Planaria per la sua conformazione completamente pianeggiante.
Pur essendo poco estesa (10,2 kmq) e molto bassa (29 metri s.l. mare) la sua particolare struttura geologica, con rocce argillose sottostanti a biocalcareniti fossilifere, ha permesso la formazione di abbondanti falde acquifere, sfruttate nei secoli dall’uomo per l’allevamento e l’attività agricola. Fin dal mesolitico infatti l’isola risulta abitata, probabilmente da popolazioni di origine elbana, come attestano gli strumenti litici e ceramici rinvenuti, ma è in epoca romana che Pianosa si dota di ville ed approdi lussuosi, di cui la testimonianza più conservata è quella relativa ad un complesso composto di un teatro, di ambienti termali e marini (i cosiddetti Bagni di Agrippa) e della residenza signorile, dove in età augustea venne esiliato ed in seguito assassinato Agrippa Postumo, nipote di Augusto. Ma le sorprese archeologiche non finiscono qui, infatti sull’isola si insediò tra il III° e il VI° secolo d.C. una comunità cristiana che costruì notevole sistema catacombale, il più grande a nord di Roma, a indicazione della presenza di una comunità di cristiani molto numerosa. E’ scavato su due livelli e diviso in due settori, quello dedicato alle sepolture in cavità scavate nella roccia ed un altro per le riunioni e la celebrazione di riti. Per quanto riguarda gli edifici di epoca più recente troviamo il Forte Teglia, costruito da Napoleone Bonaparte durante il suo esilio all’Elba, che ancora oggi, seppur abbandonato, domina il porticciolo, e le bellissime architetture ottocentesche ormai in rovina delle abitazioni relative al piccolo abitato dove vivevano le famiglie delle guardie carcerarie che controllavano la colonia penale agricola. Nel Novecento Pianosa venne trasformata in vero e proprio penitenziario nelle cui celle venne imprigionato anche il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini, arrestato nel 1929 perché socialista e antifascista, mentre tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, divenne carcere di massima sicurezza dove vennero reclusi camorristi e membri delle Brigate Rosse ed in seguito boss e camorristi, fino ad essere definitivamente chiuso nel 1998. Adesso dell’isola sono tornati padroni assoluti gli uccelli sia migratori che stanziali tra cui i falchi pellegrini, le pernici rosse, il raro gabbiano corso e le berte mentre le case coloniche, i pollai e i muretti a secco che dividevano gli appezzamenti lavorati dai detenuti sono ormai riconquistati dalla vegetazione spontanea caratterizzata da cisti, lentischi e da rosmarini, oltre a piccole pinete a pino d’Aleppo risultato di rimboschimenti ottocenteschi.

Napoleone in esilio all’isola d’Elba
Il 4 maggio Napoleone arrivò all’isola d’Elba. Un colpo di cannone partito dalla fregata “Undaunted” lo annunciò e i cannoni risposero dai forti della città di Portoferraio innalzando la nuova bandiera da lui ideata durante il viaggio: una fascia rossa con tre api d'oro in campo bianco, simbolo della laboriosità degli isolani. L'Elba attrasse così, di colpo, l'attenzione mondiale diventando il piccolo regno di Bonaparte esiliato, ed ancora oggi, nonostante il breve periodo di permanenza, i luoghi in cui visse, amò e preparò il suo fallimentare sogno di ritorno, sono rimasti indissolubilmente legati a questo grande personaggio storico.
In seguito al trattato di Fontainebleau dell'11 aprile 1814, egli scelse la sovranità sull'Elba unitamente una dotazione annua – che però lui non ricevette mai in realtà- e fu solo grazie all’aiuto economico della madre Maria Letizia, la quale vendette i propri gioielli, che egli potè garantirsi di evitare l'umiliazione di ritrovarsi senza danari. Era arrivato in rada già la sera del 3 maggio ma non certo della buona accoglienza degli elbani, decise di sbarcare a Portoferraio solo il giorno successivo, il 4 maggio 1814, prendendo ufficialmente possesso dell'isola accolto da una folla festante ed entusiasta. Purtroppo le magre finanze elbane non consentirono di decorare sontuosamente la città per l’arrivo del sovrano come si sarebbe voluto e persino le chiavi dorate della città che gli furono simbolicamente offerte furono quelle di una cantina ricoperte di porporina. Ma tali particolari non potevano interessare un uomo della tempra di Napoleone, vissuto nel lusso di Versailles eppure così spartano da dormire nel letto da campo come i suoi soldati : da organizzatore dinamico e geniale, già il giorno dopo il suo arrivo uscì a cavallo per una ricognizione dell’isola, che nei mesi successivi sarebbe diventata l’oggetto di un miglioramento sociale ed economico che ne rivoluziona la viabilità, l’agricoltura, lo sfruttamento delle miniere e persino l’igiene pubblica, determinando per essa un vero periodo d’oro. In questa prospettiva, la vita di Napoleone all'Elba fu tale da far supporre che egli intendesse, almeno in un primo tempo, rimanere sovrano di questa piccola terra. Infatti si preoccupò già a pochi giorni dal suo arrivo di cercare un’abitazione a lui consona, la villa dei Mulini, sua abitazione principale: fece costruire il piano superiore, ristrutturò il vicino piccolo teatro e decise personalmente gli arredi della dimora, scelta molto probabilmente anche per la sua posizione strategica, che consentiva un’ampia vista sul mare. Si dotò anche di una residenza di campagna (la villa di San Martino), fece costruire un teatro, pose ogni cura nell'efficienza del suo piccolo esercito e della minuscola flotta, impose un puntiglioso protocollo di corte. Numerosi sono i progetti che confermano le sue qualità di organizzatore e di costruttore dinamico e geniale. Lo assistono uomini fidati e gli fa compagnia la sorella preferita, Paolina, che con il suo carattere spregiudicato ed allegro allieta la vita di corte. Ma nonostante le apparenze, Bonaparte sente troppo stretto il suo piccolo seppur dorato regno elbano: durante l'assenza del suo custode, il colonnello inglese Campbell, la sera del 26 febbraio 1815, dopo 10 mesi di permanenza, Napoleone lascia l'Elba con una piccola flotta per affrontare il suo destino che lo porterà alla terribile sconfitta di Waterloo e al definitivo esilio all'isola di Sant'Elena, cui non sopravvisse. Tra le sue ultime parole poco prima di morire ci sono queste, rivolte alla sua isola lontana: “sei anni or sono, esattamente, giungevo all'Isola d'Elba. Pioveva. Io guarirò, se potessi sentire quella pioggia.”

Capraia, un antico vulcano nel blu
Capraia è un’isola che si differenzia dalle altre sei “sorelle” che compongono l’Arcipelago Toscano per la sua origine molto particolare: infatti è nata da una vera e propria eruzione vulcanica che ne ha determinato l’attuale conformazione, rimasta essenzialmente invariata da circa nove milioni di anni. Le sue coste a picco sul mare, selvagge e dai colori che variano dal rosso intenso al grigio scuro formano un contrasto spettacolare con il verde-blu delle sue acque limpidissime.
E’ la terza per estensione delle isole toscane ed il suo nome forse deriva dall’antica presenza di capre selvatiche, o forse dall’ etrusco “carpa”, ovvero pietra, data la sua natura rocciosa. Sull’isola ci sono due soli piccoli paesi non molto distanti tra loro: il porto, vivace e con le sue case dalle facciate multicolori, ed il borgo più antico che lo sovrasta, dalla sua posizione a ridosso dell’antico forte San Giorgio. La sua storia narra di lussuose ville romane ormai scomparse, di monaci cristiani che durante il Medioevo qui cercarono pace e solitudine ascetica, di incursioni piratesche che hanno caratterizzato tutto l’arcipelago e che non hanno certo risparmiato Capraia, la quale venne abbandonata per questo dai suoi abitanti nell’IX° secolo e fu resa dai predoni un covo da cui compiere saccheggi, ed infine fu scenario di contese tra le repubbliche marinare di Pisa e di Genova: una lunga storia che ha lasciato tracce evidenti del suo passaggio sotto forma di torri, chiese e forti, e che solo a partire dalla fine degli anni ’80 ha visto l’isola aprirsi al turismo, in quanto la colonia penale in cui era stata trasformata durante l’Ottocento venne dismessa. Nell’area centrale c’è un laghetto detto lo “Stagnone”, tra la cui flora c’è il ranuncolo acquatico che in primavera produce bellissime fioriture, raggiungibile attraverso la rete di sentieri che attraversando l’isola, permettono di immergersi nella tipica vegetazione mediterranea caratterizzata da corbezzoli, cisti, rosmarini, eriche ed altre specie vegetali, tra cui molte sono endemiche. Pochi sono i mammiferi che sono presenti, tra cui il muflone (risultato di recenti introduzioni) e i conigli selvatici, mentre l’isola è un vero e proprio paradiso per gli uccelli sia stanziali che migratori, come il raro gabbiano corso, le berte e il falco pellegrino che nidificano sulle sue falesie scoscese. Il biacco e la raganella sarda sono rispettivamente l’unico rettile ed anfibio. Anche i fondali dell’isola riservano emozioni uniche per chi, indossate maschera e pinne, voglia immergersi letteralmente in un mondo ricco di forme di vita come spugne, gorgonie e attinie ma anche di innumerevoli specie di pesci come saraghi dentici, orate e ricciole. E non manca la possibilità di incontri eccezionali : qui siamo in pieno Pelagos, il Santuario dei Cetacei, dove incrociare balenottere, stenelle e tursiopi è una frequente e gradita sorpresa.