Il Giardino dei Tarocchi è un parco artistico situato in località Garavicchio, nei pressi di Pescia Fiorentina, nel comune di Capalbio ideato dall'artista franco-statunitense Niki de Saint Phalle, popolato da scintillanti statue ispirate alle figure degli arcani maggiori dei tarocchi. Niki rimase affascinata da Parque Guell di Antoni Gaudí a Barcellona,rafforzò la propria ispirazione al giardino di Bomarzo e in alcune ville con fontane e statue come Tivoli, grazie ad alcuni amici (Famiglia Caracciolo, che donarono i terreni) arrivò a Capalbio dando inizio alla costruzione del Giardino dei Tarocchi nel 1979, realizzando il sogno magico e spirituale della sua vita.
Niki de Saint Phalle si è dedicata alla costruzione delle ventidue imponenti figure in acciaio e cemento ricoperte di vetri, specchi e ceramiche colorate, per più di diciassette anni, affiancata, oltre che da diversi operai specializzati, da un'équipe di nomi famosi dell'arte contemporanea come Rico Weber, Sepp Imhof, Paul Wiedmer, Dok van Winsen, Pierre Marie ed Isabelle Le Jeune, Alan Davie, Marino Karella e soprattutto dal marito Jean Tinguely, scomparso nel 1991, che ha creato le strutture metalliche delle enormi sculture e ne ha integrate alcune con le sue mécaniques, assemblaggi semoventi di elementi meccanici in ferro. All'opera hanno collaborato anche Ricardo Menon, amico ed assistente personale di Niki de Saint Phalle anch'egli scomparso pochi anni or sono, e Venera Finocchiaro, ceramista romana; le sculture più piccole del Giardino (la Temperanza, gli Innamorati, il Mondo, l'Eremita, l'Oracolo, la Morte e l'Appeso), realizzate a Parigi con l'aiuto di Marco Zitelli, sono state poi prodotte in poliestere da Robert, Gerard e Olivier Haligon. L'architetto ticinese Mario Botta, in collaborazione con l'architetto grossetano Roberto Aureli, ha disegnato il padiglione di ingresso - uno spesso muro di recinzione con una sola grande apertura circolare al centro, pensato come una soglia che divida nettamente il Giardino dalla realtà quotidiana. Dal 1997, per volere dell’artista, nasce la Fondazione Il Giardino dei Tarocchi il cui scopo è quello di preservare e mantenere l'opera realizzata che ha aperto al pubblico il parco nel 1998. Le sculture sono cariche di significati simbolici ed esoterici e sono l’arrivo di un percorso artistico iniziato da Niki de Saint Phalle a metà degli anni Sessanta, dopo aver abbandonato il Nouveau Réalisme e gli assemblaggi polimaterici per la creazione delle cosiddette "Nanas", enormi, morbide e rotondeggianti figure femminili percorribili ed abitabili,la prima, detta la Hon, realizzata nel 1966 per il Museo di Stoccolma e la più famosa la Tete , terminata nel 1973 nel bosco di Milly-la-Foret in Francia e dichiarata, dal presidente Mitterrand,monumento nazionale. Le sinuose, corpose, sculture del Giardino dei Tarocchi, colorate di vivacissimi e lucidi colori, incantano i visitatori con la loro esplosiva dilatazione delle forme e per la luccicante solarità ispirata ai maestri del cromatismo, da Matisse a Picasso, da Kandinsky a Klee",rivestite di un "abito di luce fatto di specchi, ceramica, piastrelle, pietra che trasforma le varie figure personalizzate in una favolosa successione di oggetti neobarocchi. Non si tratta di un parco di divertimenti, ma di percorso iniziatico che si ispira, cita e suggerisce luoghi come Bomarzo, il Palazzo Ideale di Ferdinand Cheval nella Drome, il Parco Guell, le Torri di Watts di Simon Rodia di Los Angeles ma che qui è caratterizzato soprattutto dalla presenza potente di un femminile materno carico di simboli ancestrali uniti al percorso interiore dell’autrice. Passata la soglia, la strada ci introduce in una ricca e rigogliosa macchia mediterranea che con i suoi colori brillanti fa da ambientazione perfetta al sogno del Giardino. Si sale quindi alla grande piazza centrale occupata da una vasca dove si specchiano le figure unite della Papessa e del Mago, i primi arcani maggiori dei Tarocchi che segnano l'inizio del percorso. Circondata dal verde e dalle sinuose panchine di Pierre Marie Le Jeune, la piazza è sovrastata dalle altre brillanti e coloratissime sculture. Immediatamente siamo rapiti come in un sogno, si rimane affascinati come in un incantesimo e come Alice nel Paese delle Meraviglie incontriamo personaggi irreali in un vortice di gioco e avventura che ci racchiude. Le strade che si originano dalla piazza percorrono itinerari diversi , del tutto personali e fortuiti salendo o scendendo lungo il costone, nel bosco e sulla pietra seguendo l’andamento naturale della collina. Sul cemento che le ricopre Niki de Saint Phalle ha inciso appunti di pensiero, memorie, numeri, citazioni, disegni, messaggi di speranza e di fede, offrendo così un percorso che non è solo fisico ma soprattutto spirituale ed interiore. Un percorso nel giardino ci fa infine scoprire innumerevoli tecniche artistiche, dalle possenti strutture architettoniche in cemento armato, per lo più opera del marito, alla ceramica, al vetro, agli specchi che ricoprono le sculture, le resine colorate, il ferro, gli ingranaggi meccanici, i giochi d’acqua e perfino il design di mobili e arredi della casa-scultura di Niki è frutto del suo genio.
L’avvocato Puccioni, che gli fu per anni compagno di caccia in Maremma e che scrisse poi un libro su Puccini e Capalbio racconta che la «prima» della «Tosca» è del 1898, al Teatro Verdi di Firenze, che l'anno precedente l'opera era quasi terminata, e Puccini ne aveva parlato con qualche amico mentre camminava per raggiungere il «rialto» di una cacciata al cinghiale, o sul barchino, fra le cannucce della palude di Burano aspettando le folaghe, o quando era ospite dei suoi amici Marco e Bianca Collacchioni, signori del castello di Capalbio e dell’enorme latifondo delle terre intorno.
Il maestro più volte, a Capalbio, si sarebbe messo alla tastiera del vecchio «piano e forte» del castello e ricorda Puccioni che allora si rifiutò proprio adducendo la scusa che il «piano e forte» era antiquato e non poteva suonarlo. Ma la sera dopo trovò nella sala del castello un pianoforte nuovo. Scrive Puccioni ”Quella sera e le successive ci deliziò con le sue opere, delle quali ci fece apprezzare tutta l'intima, insuperabile bellezza”. La prima volta che Puccini si recò a Capalbio fu nella settimana che precedeva il Natale del 1896. L'avevano invitato Marco e Bianca Collacchioni tramite un amico del musicista, Giuseppe Malenchini. La prima della «Bohème» aveva soddisfatto il pubblico, meno la critica, cosa che riempì d'amarezza Puccini che sentiva il bisogno di appartarsi, di andare dove nessuno o pochi lo conoscevano. Nacque così, nei suoi amici più vicini, l'idea della Maremma. Giacomo era cacciatore e le terre intorno a Capalbio erano, sotto questo aspetto, un luogo ideale. In treno arrivò a Orbetello, da qui in calesse, con Malenchini e Marco Collacchioni, raggiunse Capalbio dove, per il suo arrivo e per una gran cacciata al cinghiale, che aveva riempito i carnieri trovò ad attenderlo una grande festa. A cena il Maestro indossò un panciotto di pelle che tutti ammirarono e raccontò della «Bohème» e di personaggi famosi del mondo della musica. La mattina dopo partecipò alla sua prima cacciata al cinghiale nei boschi di Capalbio dove, appena qualche settimana prima, era stato ucciso dai carabinieri il brigante Tiburzi. In una lettera ad alcuni amici scrive entusiasta: “Là, nel verde, nell'agreste, nel selvaggio della tanto splendida Maremma, ospite di simpatiche persone, passerò credo i più bei giorni della mia esistenza. Ma siete matti? Essere a caccia dove veramente ce n'è, e dopo un successo. E il momento vero dell'animo tranquillo. Ne voglio approfittare e mi ci tufferò. Altro che banchetti, ricevimenti, visite ufficiali…” Quello di Puccini per la Maremma fu un amore grande, qui veniva a cercare la serenità quando aveva bisogno di sfuggire alla confusione della vita mondana, all'ipocrisia e alle preoccupazioni. Qui si era fatto amici fidati e aveva perfino fondato due club: , il «Club Bohème» ed il «Club Gianni Schicchi» dove si doveva essere pronti a far festa e amanti della buona cucina. Qui poteva cacciare come e quanto voleva e sempre si concesse almeno qualche giorno di svago al castello dei Collacchioni a Capalbio, o in una vicina casa di Pescia Fiorentina e, dal 1919 al 1922, nella antica Torre che guarda il Lago di Burano e che, da lui, ha preso il nome di Torre Puccini. Nel 1915 scrive ancora sulla Maremma e dice “Nella strana ed affascinante Maremma. Paese selvaggio, primitivo, lontano dal mondo, dove si riposa veramente lo spirito e si rinforza il corpo e dove mi sono divertito tanto a caccia di beccacce e per quei boschi briganteschi”. Quando nel 1919 acquistò la Torre della Tagliata il rudere di una torre doganaria. Vicino a Orbetello, sotto il promontorio di Ansedonia, vi portò un pianoforte dove fece suonare la Turandot e invitò Giuseppe Adami e Simoni, che ne firmarono il libretto, scrivendogli: «Vedrete una località che vi farà strabiliare e ci sarà tutto per voi due (...) Canotti, automobili, motocicli, ogni ordigno per pescare, ogni tranello per la caccia...». Durante tutto il 1921 si dedicò alla composizione della Turandot e dalla Torre in Maremma si sentì echeggiare le note dell’opera, e, a detta dell'amico Giovacchino Mazzini ”la Butterfly fu tutta trovata in auto, giracchiando per la Maremma, o in letto, sempre canticchiando”.
Tra tutte le storie leggendarie di Maremma, particolare è quella che racconta la vita di Domenico Tiburzi, il più famoso brigante della nostra terra. La storia di Domenichino, così veniva chiamato per la sua bassa statura, è una storia avventurosa e piena di leggende: a ogni maremmano, i nonni, ne hanno raccontata almeno una legata alle sue "malefatte". In Maremma i primi casi di brigantaggio risalgono al XIII secolo, anche se la diffusione del fenomeno si concentra nella seconda metà dell’800 e arriva fino agli inizi del ‘900 e la morte di Tiburzi prima e quella del suo fido compagno Luciano Fioravanti poi segnarono la fine del brigantaggio nel grossetano.
In Maremma, come in altre zone d’Italia, il brigantaggio si era sviluppato per tre motivi principali: il favore della popolazione, che vedeva nei briganti gli eroi in grado di rimediare ai torti subiti dal governo; il favore dei proprietari terrieri,che pagando la “tassa sul brigantaggio” si garantivano la protezione da parte dei banditi; l’ambiente, caratterizzato da una macchia impenetrabile,rifugio ideale per i fuorilegge. "Darsi alla macchia " era il modo di dire fino a poco tempo fa, da chi abitava nelle campagne. Che sia stato principalmente il ‘malgoverno’ a favorire lo sviluppo del brigantaggio che si definiva come “la protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche e secolari ingiustizie”è sicuramente una verità storica, anche se il fenomeno è molto complesso da inquadrare e non mancano, come per realtà malavitose contemporanee, connubi con le allora forze politiche al governo e all’opposizione. Gli episodi più gravi di violenza si verificarono ai danni di carabinieri, fattori e altri rappresentanti del potere padronale e dello Stato. In questo contesto si inserisce la storia di Domenico Tiburzi. Nato a Celere (Viterbo) nel 1836, iniziò a compiere le sue prime rapine da ragazzo. Nel 1867 Tiburzi compiva il suo primo omicidio, uccidendo il guardiano del marchese Guglielmi, dopo che lo aveva multato di venti lire, una cifra molto alta per quei tempi, per aver raccolto un fascio di spighe nel campo del marchese. Dopo l’omicidio Tiburzi si dette alla latitanza nella profonda macchia maremmana, ma nel 1869 venne arrestato e condannato. Tre anni dopo, evaso dal carcere per rifugiarsi nella macchia, si alleò ad altri briganti, diventando capo banda. Sono numerosi i delitti compiuti da Domenico Tiburzi. Ma gli omicidi di cui fu responsabile riguardavano soprattutto "amici" che non stavano alle regole, spie, o chi commetteva rapine in suo nome, “infangando” la sua immagine. Tiburzi era visto come un Robin Hood dalla popolazione che così lo aiutava e lo nascondeva. Il brigante, per ingraziarsi i consensi del popolo, istituì per esempio la “tassa sul brigantaggio” che i ricchi possidenti terrieri dovevano pagare (in caso di mancato pagamento, i loro campi venivano dati alle fiamme) e il cui ricavato veniva donato ai poveri. Nel 1893 lo Stato impose alle autorità di catturare tutti i briganti, ma Tiburzi riuscì a scappare insieme ad altri. In Maremma, infatti, si creò un vero e proprio muro di omertà in protezione dei briganti. Per questo, in poco tempo, furono effettuati molti arresti che coinvolsero nobili, contadini, pastori, tutti accusati di favoreggiamento. La notte del 23 ottobre 1896 Domenico Tiburzi bussava alla porta di una casa in località Forane, a Capalbio, insieme al suo luogotenente Luciano Fioravanti. Quella notte i carabinieri arrivarono all’abitazione e uccisero Domenichino colpendolo con due colpi di fucile sulla gamba e alla nuca mentre Fioravanti riuscì invece a fuggire. Quella piovosa notte d'autunno tre gendarmi, il brigadiere Demetrio Giudici e i carabinieri Raffaele Collecchia ed Eugenio Pasquinucci, per non aver trovato alla casa del Cunicchio del pane per rifocillarsi, proseguirono verso Capalbio e passando in località "le Forane" videro il lume acceso nella casa del colono Franci, dove abitavano, assieme al padre, anche le due belle figlie con le quali il Tiburzi e il Fioravanti pareva se la intendessero. I due fuorilegge avevano trascorso la serata assieme ai familiari del colono, e soprattutto "Domenichino" aveva ecceduto con le libagioni e sulla tavola si erano allineati molti fiaschi di vigoroso vino maremmano. le cronache dell’epoca raccontano che Improvvisamente, all'avvicinarsi dei gendarmi, i cani iniziarono ad abbaiare furiosamente, e al "Chi va là" del Tiburzi parte lo scontro a fuoco: i due briganti potevano brandire ottimi fucili a retrocarica, fucili a canne mozze, pugnali e varie rivoltelle. Appena spalancata la porta il primo che uscì allo scoperto per fuggire fu il Fioravanti che esplose un paio di fucilate nell'ombra, per coprirsi la fuga nelle tenebre con l'effetto sorpresa. Il Tiburzi invece, più anziano e lento non riuscì a scappare come il Fioravanti, ma questo non gli impedì di lasciare andare anch'esso due fucilate verso quella che credette la figura di un gendarme: l'infallibile mira del Re del Lamone, annebbiata dal vino e dagli anni questa volta colpì un orcio di terracotta, che andò si in frantumi, ma espose al contempo il brigante ad una più rapida individuazione dei carabinieri, i quali risposero al fuoco, crivellandolo di colpi alle gambe e al torace, e lasciandolo ucciso all'istante. L'unica fotografia che si trovi del brigante Domenico Tiburzi è stata fatta dopo la sua morte, con il corpo legato ad una colonna di marmo appena oltre l'ingresso del piccolo cimitero di Capalbio per tenerlo in piedi e gli stecchini agli occhi per dare l'illusione che fosse ancora vivo. La colonna dopo più di cento anni è ancora lì a testimoniare il fatto avvenuto. Tiburzi riposa nel cimitero di Capalbio, dove venne sepolto “mezzo dentro e mezzo fuori”, risultato questo del compromesso raggiunto tra il prete del paese, che non voleva che il bandito fosse seppellito in terra consacrata, e la popolazione, che chiedeva degna sepoltura per colui che proteggeva i diritti dei più deboli. Quindi si scavò una fossa proprio nel punto in cui si apriva l’originario cancello d’ingresso del cimitero, perpendicolare al cancello stesso:gli arti inferiori di Domenichino, simbolo del corpo,furono adagiati in terra consacrata, mentre la testa e il torace, sede dell’anima, rimasero fuori.
Via de' Barberi, 106/E
58100 Grosseto (GR)
Telefono: (+39) 0564 416276
Mobile: (+39) 346 6524411
P.Iva Cod Fisc. 05057400482