Parco Regionale della Maremma
Una delle aree protette più importanti della Toscana.
Approfondimenti

San Rabano
Il complesso abbaziale di San Rabano, posto a cavallo tra Poggio Lecci e Poggio Alto, si trova all'estremità meridionale del comune di Grosseto, nel cuore del Parco Naturale della Maremma, lungo il crinale dei monti dell'Uccellina ad una altezza di circa 320 m. s.l.m., alla fondazione, avvenuta nei primi del XII°sec., lo troviamo indicato come Monasterium Arborense o Monasterium de Arboresio o Alberese.
L’etimologia più probabile sembra inerente ad albarium, bianco, riferito alla pietra biancastra dei monti dell’Uccellina appunto denominata alberese, rimane tuttavia incerta e in parte sovrapponibile l’origine legata ad arbor, albero... Nel primo documento che si conosca il nuovo nome sembra soppiantare un precedente Sancta Maria de Arboresio, mentre successivamente viene semplicemente indicato come Domus et loci ordinis Sancti Benedecti de Arboresio. Attualmente è conosciuto come San Rabano ma, per quanto diffusa, sembra poco probabile l’ipotesi della derivazione del nome attuale da un più antico romitorio posto più a valle, mentre è da ritenersi più valida la teoria che vede nascere “S. Rabano” come uso improprio e arbitrario della citazione Sancti Rafani Praeceptor, costruttore di San Rabano, chiesa terminata nel 1587 in Alberese di cui, la critica sette – ottocentesca, indica come costruttore l’ultimo Abate dell’Abbazia stessa. Il complesso, sorto nell’XI°sec. come insediamento benedettino cassinese, raggiunse il pieno sviluppo soprattutto nel corso del secolo successivo ad opera dei benedettini cistercensi. La scelta di tale luogo è sicuramente da mettere in rapporto ad un piano di controllo territoriale, di sfruttamento delle risorse, di cui questa zona era ricca, e di sviluppo economico. A poca distanza dall’Abbazia la “Strada della Regina”, che permetteva il collegamento tra l’antico tracciato dell’Aurelia, ed il mare. La zona circostante l’abbazia venne disboscata, terrazzata e sistemata per poter permettere la coltivazione di piante quali l’olivo e la vite; con ogni probabilità fu introdotta la quercia da sughero e poco distante si sviluppò un piccolo villaggio di cui rimangono oggi pochi resti sepolti dalla vegetazione. Il primo documento relativo all’Abbazia che conosciamo porta la data del 7 aprile 1101 ed è la risoluzione data dal Papa ad un contenzioso sorto tra il Vescovo di Roselle e l’Abate per quanto riguarda la riscossione di decime da parte del primo sul territorio del secondo. In tale carta si parla di un monastero in praesenti, ma con ogni probabilità si vuol indicare piuttosto una struttura in via di sviluppo, non ancora terminata e, anzi, da avvantaggiare nella crescita e ricchezza. La crescita e l’importanza dell’Abbazia sarebbero così successive al 1101 ed è quindi da ridimensionare la precocità dell’insediamento. Nei decenni successivi S. Rabano raggiunse il massimo dello sviluppo e Papa Innocenzo II° trasferì all’Abate il controllo di tutti i monasteri riformati fino al confine laziale. Nel corso del XII°sec. l’ordine benedettino andò incontro ad un periodo di crisi che portò all’abbandono di molti monasteri.
Tale crisi dovette sicuramente investire anche S. Rabano, ma la mancanza di documenti non permette di conoscere con sicurezza le sorti. Il 30 Gennaio del 1303, Papa Bonifacio VIII incaricò il priorato pisano dei cavalieri di Gerusalemme di “vigilare, custodire, difendere, amministrare le terre e il monastero di Alberese.” In un documento del 30 Gennaio 1307 il luogo è definito ancora “Monastero” mentre nel successivo del 18 Ottobre 1336 compare per la prima volta il termine “Fortilizio”. Se ne deduce che la fortificazione, visibile ora come innalzamento delle murature con merli, sia avvenuta fra le due date. Tenendo conto che per un breve periodo intorno al 1321 il monastero fu sotto il dominio degli Abati, tiranni di Grosseto, per pochi anni dal 1312, si è cercato di indicare in questi gli esecutori dei lavori che invece, da un esame più attento, risultano più vicini alle modalità di fortificazione utilizzate dai Gerosolimitani stessi. Nel XIV° sec. il dominio del fortilizio fu causa di discordie fra Siena e Pisa e nel 1438 Siena, ormai padrona assoluta della zona, fece smantellare l’Abbazia trasferendo nel 1475 la sede del Priorato nelle nuove strutture di Alberese.
Il complesso architettonico è composto da una chiesa, dal relativo monastero e da una torre di avvistamento detta “dell’Uccellina”. I lavori risalgono a due cantieri principali ed a vari altri interventi successivi. Parte del materiale costruttivo è sicuramente di recupero e la fondazione sembra basarsi, non sappiamo fino a che punto, su strutture preesistenti. Il primo cantiere è riferibile alla fine dell'XI°sec. mentre l’altro alla seconda metà del XII°.
La chiesa di fondazione aveva uno schema cruciforme con copertura a capriate e volte a botte nei transetti. La volta a crociera della navata risale al secondo cantiere così come il campanile e la cupola. Di particolare interesse risulta il sistema di copertura, in parte crollato, della navata centrale ritenuto uno dei più antichi esempi di volta costolonata in Toscana. La copertura, pesantissima, è costruita in pietrame e sorretta da grossi costoloni che poggiano tramite capitelli direttamente sui muri della navata. Molto bello l’alto tiburio ottagonale della cupola, da alcuni indicato come bizantino ma rapportabile alla cultura del romanico lombardo. Di difficile datazione le lavorazioni dell’arco del portale e della finestra absidale, secondo alcuni altomedievali e secondo altri più tarde. Dubbi stilistici permangono anche intorno ai rilievi con croci greche e cordonatura dell’architrave del portale. Il corpo orientale è composto da un’abside centrale e da due più piccole laterali con lavorazioni ad archetti pensili nel sottotetto. Il campanile con mensole marcapiano è chiaramente di stile romanico-lombardo, ma risulta alterato nei piani sopra le bifore a causa dell’innalzamento avvenuto, forse, durante la fortificazione del complesso. L’interno, di grande fascino, ospita una scala che sale lungo le pareti con sei rampe che poggiano su archi sorretti da colonne e pilastri. Della scala originaria rimane soltanto la prima rampa, mentre le altre risultano alterate dai lavori del primo restauro realizzato nel 1972. Nel corpo della chiesa, i recenti lavori di restauro, hanno portato alla luce tracce delle pavimentazioni che risultano, almeno nell’area presbiteriale, eseguite in marmi policromi con la tecnica cosmatesca. In un ambiente adiacente al campanile sono stati montati ad uso espositivo i materiali trovati durante gli scavi tra cui molti marmi romani di riutilizzo. I resti del monastero non sono in un buono stato di conservazione e solo i recenti scavi hanno potuto permettere una lettura migliore del complesso che risulta essere ciò che rimane di una struttura solida con sviluppo almeno su due piani, pavimenti in cotto e copertura in pietra. Si può riconoscere un cortile centrale con cisterna, i resti di canalette per la raccolta delle acque piovane, una entrata carrabile ed una più piccola, un ambiente provvisto di forno vicino alla torre dell’Uccellina e una struttura circolare, una preesistente torre d’avvistamento, ritenuta il nucleo più antico del complesso e del tutto inglobata nelle murature successive. Si individuano poi ambienti ad uso di lavatoio, forse uno scriptorium (esistono documenti medievali scritti in questa struttura ed ora conservati in altre biblioteche) e un’altra cucina riferibile ad ambienti ad uso di foresteria e di accoglienza dei viaggiatori. Dell’abitato circostante non restano che poche tracce nel bosco, alcune cisterne e rovinati perimetri murari non risultano ancora indagati e studiati. Poco più in basso, lungo il sentiero di ritorno dell’itinerario A1, si individuano i resti della vasca di una sorgente ormai asciutta in una zona detta “Le tre fonti”.

Il cinghiale maremmano
Il cinghiale, Sus scrofa, è un mammifero artiodattilo della famiglia dei Suini. La Maremma Toscana nella sua fitta macchia mediterranea ospita numerose specie di animali, tra queste, legato in un binomio inscindibile con la Maremma, c’è il cinghiale.
Famoso per la sua tenacia, per la sua forza e, contemporaneamente, per la sua carne pregiata, il cinghiale maremmano è da sempre considerato una delle prede più ambite ed un fiero avversario nella caccia alla grossa selvaggina. Originario dell'Eurasia e del Nordafrica, nel corso dei millenni il cinghiale è stato a più riprese decimato e reintrodotto in ampie porzioni del proprio areale e anche in nuovi ambienti, dove si è peraltro radicato talmente bene, grazie alle sue straordinarie doti di resistenza e adattabilità, che viene considerato una delle specie di mammiferi a più ampia diffusione ed è arduo tracciarne un profilo tassonomico preciso, in quanto le varie popolazioni, originariamente pure, hanno subito nel tempo l'apporto di esemplari alloctoni o di maiali rinselvatichiti. Da sempre considerato al contempo una preda ambita per la sua carne e un fiero avversario per la sua tenacia in combattimento, solo nel corso del XX secolo ha cessato di essere una fonte di cibo di primaria importanza per l'uomo, soppiantato in questo dal suo discendente domestico, il maiale. Per lo stretto legame con l'uomo, il cinghiale appare frequentemente, e spesso con ruoli da protagonista, nella mitologia di molti popoli basti pensare al cinghiale Calidonio oppure che proprio l’uccisione del terribile cinghiale di Erimanto fu una delle fatiche di Ercole. Il cinghiale ha costituzione massiccia, con corpo squadrato e zampe piuttosto corte e sottili. Ciascun piede è dotato di quattro zoccoli, dei quali i due anteriori, più grossi e robusti, poggiano direttamente sul terreno, mentre i due laterali sono più corti e poggiano sul terreno solo quando l'animale cammina su terreni soffici o fangosi, favorendo una migliore distribuzione del peso e impedendogli di sprofondare. Nonostante le piccole zampe, il cinghiale si muove piuttosto velocemente, solitamente al trotto, ed è in grado di galoppare molto velocemente anche nel fitto del bosco, ad esempio durante una carica o una fuga, seguendo quasi sempre traiettorie rettilinee. Di indole pacifica, può diventare molto pericoloso se attaccato o se si sente minacciato. Nonostante l’aspetto goffo è molto rapido nella corsa e un agile nuotatore, dotato di udito e olfatto sensibilissimi. Ha pelo ispido e scuro, il corpo è massiccio e squadrato, dotato di grandissima forza e resistenza. Caratteristica inconfondibile è la testa che è notevolmente più grande e massiccia rispetto al corpo e ha il grugno allungato. La dentatura adatta ad una alimentazione onnivora permette di triturare alimenti vegetali (erba, radici, tuberi, frutti, granaglie, è particolarmente goloso di ghianda) ma anche lo sfibramento delle carni (si nutre anche di invertebrati, piccoli mammiferi e talvolta anche di carcasse di animali di dimensioni maggiori). La peculiarità della dentatura del cinghiale sono i canini inferiori, le zanne. Forse rappresentano la sua caratteristica più conosciuta, più temuta e più ripresa dall’immaginario collettivo. Questi denti sono a crescita continua, ma nella femmina restano comunque di dimensioni ridotte, mentre nel maschio crescono fino a sporgere ricurve verso l’alto vistosamente al di fuori della bocca, sovrastando il muso con aria minacciosa. Tipica del cinghiale è l’abitudine di grufolare scavando nel terreno alla ricerca di cibo, ma le zanne non servono solo a questo, sono anche efficaci strumenti di difesa. Un’altra abitudine del cinghiale è l’insoglio: un bagno di acqua e fango utile per rinfrescarsi durante l’estate e per liberarsi dai parassiti. Per scrostarsi di dosso il fango essiccato, poi, l'animale si sfrega periodicamente contro superfici verticali, come massi e tronchi d'albero detti grattatoi. La sua pelle spessa e dura è utile per proteggerlo oltre che dagli insetti anche dal freddo, da eventuali ferite e addirittura dai morsi di vipera. Il cinghiale maremmano vive oltre 10 anni, è di taglia piccola e poco prolifico (raramente più di 3 cuccioli a figliata), i cuccioli nascono dopo una gestazione di circa 4 mesi, le femmine vivono in branchi, talvolta anche numerosi, composti, oltre che dalle femmine, dai piccoli e dai giovani maschi. I cinghiali sono animali sociali, che vivono in gruppi composti da una ventina di femmine adulte coi propri cuccioli, guidate dalla scrofa più anziana. I maschi più anziani conducono una vita solitaria per la maggior parte dell'anno, mentre i maschi giovani che ancora non si sono accoppiati tendono a riunirsi in gruppetti. In passato è stata operata una massiccia introduzione di razze estere, in particolare di cinghiale ungherese, molto più robusto e prolifico, le femmine arrivano a partorire anche 8-12 cuccioli a figliata. Questo aspetto, insieme al successivo incrocio delle due razze, ed alla scarsa pressione predatoria incontrata in Maremma (scarsità di superpredatori come il lupo) ha portato ad una crescita esponenziale della popolazione. Anche in questo caso l’uomo col suo intervento ha stravolto l’equilibrio creato dalla natura in millenni di evoluzione.

Il bovino maremmano
Il duro lavoro dei campi, la bonifica di terre paludose in Maremma è storia conosciuta e recente. Chi ha per millenni sostenuto il lavoro dell’uomo rendendolo meno gravoso? quale animale lo ha nutrito, vestito e protetto con le sue pelli anche in tempo di carestia? Andiamo a conoscere quindi quest’ animale magnifico, il Bovino Maremmano, che tanto ha significato per le nostre terre.
Razza simbolo della Maremma e della sua identità, per anni è stata creduta creduta una “immigrata recente” ed è diventata oggi un emblema prezioso sulle origini della storia dell’uomo, dell’agricoltura e dell’allevamento. L’ecologia di questi bovini conserva ancora quei caratteri di arcaicità e di rusticità conseguente all’adattamento nei millenni all’ambiente naturale dell’uomo, che da nomade diventa stanziale, che si adatta al clima della Maremma, tentando di migliorare la propria sorte con l’agricoltura e la trasformazione del territorio. Le lunghe corna a forma lunare per il maschio, a forma di lira per la femmina, la giogaia (la parte pendula che da sotto il mento arriva al petto), la parte anteriore più spiccata e la colorazione del mantello da grigio a nero con quel tipico dimorfismo sessuale delle specie più antiche la fanno assomigliare alle descrizioni del mitico Bos Taurus Primigenius confermato nell’uro selvatico. In epoca recente, alcuni autori, farebbero risalire la Maremmana al bovino macrocero grigio dell’Asia, giunto in Europa con le invasioni longobarde e poi separatosi in Italia in due ceppi: adriatica e tirrenica, generando le razze romagnola, marchigiana e pugliese per la zona adriatica e la Chianina e la Maremmana per la zona tirrenica. Il nostro bovino Infatti è molto simile al bovino della steppa ungherese e probabilmente l’attribuzione avvenne a causa di una confusa lettura della “Historia Longobardum” di Paolo Diacono (che nel 720-799 d.C. parla dell’arrivo in Italia dei longobardi insieme a dei “bubali” che “parvero quasi un miracolo alla popolazione locale”. Ma nella storia del Granducato di Toscana dei Lorena si ha notizia che non furono i Longobardi a portare i bovini in Italia ma, piuttosto, i Lorena ne esportarono alcuni dei loro capi, allevati nella Tenuta di Alberese, nei latifondi ungheresi per migliorare la loro popolazione bovina. Un’altra teoria sostiene che la vacca maremmana discenda dal ceppo podolico, razze europee di bovini grigi, alcuni dei quali purtroppo oggi estinti, e probabilmente discendenti da un antenato comune. Alcuni studiosi ritenevano che questo antenato fosse l’antico Uro (Bos Taurus Primigenius), bovino selvatico che si estinse in Polonia alla fine del 1627. L’uro fu descritto anche nel De Bello Gallico da Giulio Cesare e nella Historia Naturalis da Plinio, ma più probabilmente si tratta di una leggenda. Molto più probabilmente invece che questa razza bovina fosse invece già presente in Italia nel Neolitico come forma primitiva di domesticazione, come testimoniano alcune rappresentazioni di bovini dalle lunghe corna riportate su di una lamina in bronzo dell’XI secolo a.C., rinvenuta nei monti della Tolfa, su alcuni askos (vasi) di epoca villanoviana, oggi esposti presso il Museo Archeologico di Tarquinia, un gruppo bronzeo raffigurante un aratore con i buoi, risalente all’VIII secolo a.C., su di un vaso, rinvenuto nei pressi del Lago di Bolsena, raffigurante una scena di sacrificio,su alcuni affreschi di epoca etrusca nella Tomba dei Tori (VI secolo a.C.) presso Cerveteri, un’urna a forma di testa di toro ed alcune teste bovine che decorano la tomba Bernardini di Palestrina, risalente al 675 a.C. ed esposta al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. Molto probabilmente questa razza maremmana fu impiegata anche in epoca romana per lavoro, come fonte di carne e nella Giostra delle Vaccine (la versione romana della corrida). Il bovino maremmano si distingue nella storia e nel suo rapporto con l’uomo, mantenendo la sua parziale libertà negli allevamenti allo stato brado e semibrado non essendo adatto come razza stallina, ma forte e resistente con pochissime esigenze alimentari e quindi potente mezzo di lavoro prima della meccanizzazione. Proprio a causa della sua robustezza e forza fu un importante mezzo di lavoro per le opere di bonifica e risanamento della Maremma. La vacca maremmana è caratterizzata da alcuni specifici caratteri morfologici :mantello di colore grigio, tendente al grigio scuro nei masi, al grigio chiaro nelle femmine, tendente al bianco in età avanzata. I vitellini alla nascita hanno un mantello un bellissimo colore frumentino (marrone-biondo chiaro colore del grano) in modo da mimetizzarsi meglio e sfuggire a predatori quali volpi e lupi che diventa grigio intorno ai 3-4 mesi di età. La testa è leggera e dotata di lunghe corna sottili, nei maschi la cornatura è più robusta e a forma di semiluna, nelle femmine a forma di lira il collo è corto e muscoloso con una giogaia molto sviluppata, soprattutto nei maschi le spalle sono muscolose e lunghe, aderiscono al tronco il garrese è muscoloso e largo il petto è ampio e possente, con un costato molto arcuato, frutto della selezione fatta negli anni per l’attitudine di questa razza al lavoro gli arti anteriori e posteriori sono muscolosi e con stinchi solidi ma leggeri il piede è forte e con talloni alti. Razza che resiste elevate temperature, si muove bene anche in paludi fangose grazie al suo agile e forte apparato locomotore, si accresce nutrendosi di cannucce e di salicornie (erba tipica delle zone salmastre e paludose) ma non ama intrusi nel periodo dell’accudimento della prole. Monta e parto avvengono in modo naturale. Le vacche hanno la mammella ben conformata e forniscono una produzione di latte (10-12 l) che assicura un accrescimento giornaliero del vitellino di 1 Kg. Non sono adatte alla mungitura essendo il latte prodotto solo sufficiente alla crescita del piccolo. Sono bovini longevi e rustici (raggiungono i 15-16 anni di età), ma economicamente tardivi in quanto a 18 mesi pesano soltanto 350-440 Kg (invece dei 600 Kg di razze più produttive), da adulti i tori pesano 700-1200 Kg e le vacche 600-700 Kg. Antica razza da lavoro è oggi allevata come animale da carne. Alla vista è un animale imponente, maestoso e affascinante. Perfettamente inserito nel suo habitat naturale dove si muove guardingo in numerosi gruppi familiari. Parte integrante della vita della gente di Maremma è usata, una volta all’anno ( la notte del 9 agosto) condotta da un Buttero, per trainare un carro che trasporta la statua del Patrono di Grosseto, San Lorenzo, nella processione per le vie della città. Camminare nei sentieri del Parco della Maremma e incontrarne alcune al pascolo è un momento di rara bellezza e mistero; il possente animale diventa icona di una terra dove le emozioni ci riportano indietro nel tempo in un viaggio senza fretta.

I Veneti di Maremma
Forse non tutti sanno che nel cuore della Maremma c’è un paese, Alberese, a 17 km a sud da Grosseto dove il cognome fa la differenza. Insomma “Dimmi come ti chiami e ti dirò da dove vieni”. La storia dei cognomi può raccontare come nei secoli gli italiani si sono spostati lungo lo stivale. I flussi migratori declinati secondo la distribuzione geografica dei nomi che ogni migrante porta con sé, insieme alle speranze di una vita migliore, questa la chiave di lettura di uno studio, (pubblicato sulla rivista americana “Human Biology”) a opera di un team di ricercatori italo-francese, che comprende il gruppo di Alessio Boattini dell’Istituto di biologia dell’Università di Bologna e quello di Gianna Zei dell’Istituto di genetica molecolare di Pavia, coordinati da Franz Manni del Muséum national d’Histoire naturelle di Parigi.
E così si scopre che nel Lazio, Toscana e Liguria sono poco meno di un terzo della popolazione è autoctono, Bolzano, Cagliari e Trento risultano le città meno permeabili ai fenomeni migratori, rispetto ai grandi centri Roma, Milano, Torino. Dai risultati della ricerca emerge che la regione Toscana a cui spesso viene associata una forte identità culturale è in realtà, popolata da cognomi provenienti da tutt’altre zone, spesso dal Nord e dal Sud d’Italia. Come in Liguria e Lazio solo il 28 per cento degli abitanti toscani risulta autoctono, segno del loro ruolo di passaggio, di corridoio di forti flussi migratori. La Maremma per secoli ha attratto lavoratori da varie parti d’Italia. Tra le migrazioni più note ricordiamo quella dei contadini veneti che nei primi decenni del Novecento si sono stabiliti nei poderi di Alberese. Storia ripercorsa in maniera accurata nel libro «I Veneti di Maremma» a cura di Paolo Nardini e Massimo De Benetti, arricchito dalle fotografie di Giovanni Bredariol. I primi arrivarono nell’autunno del 1930, con viaggi avventurosi da Padova, e dalle campagne limitrofe con strano parlare e con cognomi degni di una commedia in dialetto del grande Carlo Goldoni: Canton, Santin, Pavin. Al termine delle opere di bonifica e di costruzione delle abitazioni rurali, tra il 1931 e il 1932, giunse il resto Troncon, Bottazzo, Toniolo, Rosso, Pieretto, Allegro, Zampieri, Lampredi e tanti altri. Arrivarono in treno, in bicicletta, con il carro e anche a piedi in un viaggio della speranza a seguito della tremenda gelata del febbraio 1929 che fuori stagione che mise sul lastrico intere famiglie di contadini, e paralizzò l’intera Europa. Erano contadini esperti di bonifica di luoghi acquitrinosi e lagunari come Venezia, disperati ma speranzosi, affaticati dalla miseria ma volenterosi di vedere una “terra promessa” seppur amara nella Maremma, in particolare nelle terre della Tenuta di Alberese allora gestita dall’Opera Nazionale Combattenti e Reduci. La storia delle migrazioni parte dal fatto che la pianura maremmana era scarsamente abitata e che le fattorie per i lavori stagionali impiegavano avventizi che provenivano dalle zone montane. A primavera per il taglio del fieno e in estate per la mietitura del grano, giungevano operai dall' Amiata grossetano. In autunno e inverno arrivavano i pastori dall’ Appennino tosco-emiliano che restavano fino a maggio a "svernare"; dall’ Abruzzo giungevano potini, sieparoli e altri lavoratori dediti alla pulitura dei canali e boscaioli e carbonai provenivano dal Pistoiese e dalla Romagna. Agli inizi del 1900 la Tenuta di Alberese era una delle più estese aziende agricole della Maremma, con i suoi 6.500 ettari, aveva coltivazione estensiva del grano e concedeva a fida le aree di pascolo e di macchia ma, la scarsa produttività, fece sperimentare una nuova forma di gestione del territorio: la mezzadria. Pertanto si dovette procedere alla costruzione di case coloniche con annessi quali pompe a vento, pozzo, fontanili, stalle che per buona parte venenro affidate a contadini della val di Chiana. Durante la prima guerra mondiale, i Lorena (proprietari dell’azienda) per paura dell esproprio, la cedettero al duca Lante della Rovere ma l’atto fu invalidato dal governo che, nel 1923, la affidò all’Opera Nazionale per i Combattenti (O.N.C) che assunse la gestione diretta, con lo scopo di favorire l'attribuzione di terreni coltivabili ai reduci contadini. Questo passaggio non piacque a molte famiglie di contadini chianini che a seguito di contrasti e usi della forza pubblica furono inviate a tornarsene a casa. In quel periodo tra l altro la zona di Alberese era ancora soggetta alla malaria a causa degli acquitrini e le paludi nella piana maremmana: erano luoghi abbandonati e impervi dove la vita era molto difficile. All' ONC fu attribuito il compito di portare a termine la bonifica idraulica e il risanamento del territorio, creando le condizioni per l’insediamento dei nuovi coloni veneti che venivano selezionati attraverso un bando e a cui vennero affidate unità poderali con casa colonica, la stalla per sedici capi, il pollaio, un annesso rustico con il forno, due stabbi per i suini, la concimaia in muratura, un pozzo con la pompa, l abbeveratoio e un lavatoio comune. Le famiglie erano selezionate per lo più dal padovano per la loro integrità fisica, il loro carattere mite di "brave persone" con almeno un membro della famiglia reduce combattente del primo conflitto mondiale e con almeno quattro maschi in età lavorativa sani e di etnia pura italiana, e che fossero state colpite più che mai dalla crisi degli anni '30. Tra le migliaia che ne fecero richiesta, pochi riuscirono ad aggiudicarsi "la terra florida e produttiva promessa, ' che, pur se a mezzadria per 30 anni, poteva facilitare una nuova vita e una diversa condizione sociale. Ma l'aspettativa fu inizialmente delusa: la terra si rivelò malsana e scarsamente attrezzata, lo stato di debito perenne nei confronti dell’azienda, fece vivere le famiglie in una condizione che garantiva a malapena la sussistenza. Per i contadini sarebbe stato più vantaggioso andare a lavorare fuori ma l'azienda non lo permetteva e l'ONC vietava ogni forma di allontanamento dal podere con controlli ferrei e capillari, ostacolando ulteriormente la ricostruzione delle relazioni sociali in un territorio già devastato e desolato da anni. L'azienda inoltre, speculando sulla grande volontà e scarsa possibilità di scelta dei mezzadri, li utilizzava al 50% di retribuzione per potature, scavo e ripulitura canali di scolo delle acque, con il fatto di spettanza delle opere di risanamento del territorio previste dal contratto: in questo modo l azienda recuperava una parte del proprio credito. Nei primi venti anni dall’arrivo delle famiglie venete ci fu una grande divisione tra le mansioni affidate a "toscani" e quelle dei "veneti", relegati al ruolo di contadini mezzadri sottopagati a differenza dei discendenti delle famiglie della Val di Chiana che erano alle dipendenze dell'azienda come operai, falegnami, meccanici, guardie e figure specializzate come impiegati e fattori. Da 20 famiglie Alberese in pochi anni ne ebbe 98 con un migliaio di abitanti e non ci fu amalgama sociale fino ai primi anni degli anni 90 con le terze generazioni. I veneti di “Albarese” hanno mantenuto il loro dialetto all’interno della famiglia ma hanno sempre parlato in italiano all’esterno. Termini veneti, quindi, non sono entrati nel linguaggio maremmano». Come scrive l’antropologo Roberto Ferretti nel 1984 in «Segare la Vecchia e bruciare il Marzo»: «Ad Alberese i veneti si pongono come comunità alloglotta: continuano a parlare come nella loro terra patria e solo quando si trovano in presenza di altri si sforzano di usar l’italiano o addirittura lo stesso toscano». I "capoccia" rimasti, i capofamiglia nati negli anni 30 e 40 sono orgogliosi delle loro radici, parlano il dialetto antico, quello dei contadini del padovano, con una leggera aspirazione della "c" Toscana. Unico segno tangibile della loro vera terra natìa, rinnegata dai tratti somatici, dalle abitudini e di un fare differente. Sicuro a questa gente va un ringraziamento speciale per aver reso meraviglioso un luogo disperato e amaro, per aver lavorato duramente e con pazienza una terra che ci ha messo più del previsto a dare i suoi frutti, ma che oggi possiamo dire è il fiore all occhiello della Maremma, tanto da contenere in una sola località tutte le più importanti risorse ambientali, agricole e delle tradizioni: il Parco Regionale della Maremma e l’Azienda di Alberese, emblema della ruralità di tutta la Toscana sia in Italia che all’estero. Luogo tanto amato dal turismo naturalistico e agrituristico, luogo con dei nomi strani per essere quaggiù nella Maremma come Carso, Montenero, Montegrappa e cognomi che finiscono per “in” e “on”, a riprova che la storia non finisce mai.