La città di Orvieto
Lo splendore del Duomo e il mistero della città sotterranea
Approfondimenti

Il bianco di Orvieto DOC
Il ruolo fondamentale del vino nella vita quotidiana e nei riti culturali di Orvieto è attestato negli importanti dipinti delle tombe etrusche del territorio (seconda metà del IV sec. a.C.) e nella ricca varietà di ceramiche etrusche e greche destinate alla conservazione, alla mescita e alla degustazione della celebre bevanda. Gli affreschi della tomba Golini I, conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto, riproducono le fasi preparatorie del banchetto etrusco dove la macellazione delle carni e l’accurata sistemazione delle bevande e dei cibi nei recipienti sulle mense da parte dei servi, si individua facilmente tra la frutta anche un grappolo d’uva, affiancano il banchetto vero e proprio.
Per capire l’importanza del vino per questa città è necessario ripercorrere alcuni passaggi fondamentali della storia. Nel 264 a.C. la città di Orvieto, completamente rasa al suolo dai romani, fu l’ultima città etrusca conquistata. La smania distruttiva di Roma fu talmente esasperata poiché nulla doveva ricordare la superba città che per secoli aveva incarnato la potenza e la grandezza etrusca. Fu ribattezzata dai romani col nome di Vol-Tinii – la città dei seguaci dello sconfitto Dio Voltumnus – che evolse poi a Volsinii. Passarono centinaia di anni prima che, sulla rupe, la civiltà romana permise di creare un nuovo insediamento abitato. Infatti, solo successivamente fu identificata come Urbs-Vetus – città vecchia – e sembra perché Roma vi mandasse i suoi veterani a riposare. Da questo nome derivò poi Orbiveto, Orbeto e infine l’attuale Orvieto. Nel corso della denominazione romana conobbe un periodo di forte oblio dovuto al fatto che venne isolata sull’alta rupe e decentrata rispetto alle maggiori vie di comunicazione sia fluviale – porto di Pagliano eretto per le ordinarie consegne alla Roma imperiale prima e alla Curia romana nei successivi periodi cristiani – sia terrestre, con la via Cassia e la via Traiana Nova, non partecipando così alla intensa vita economica dei centri del fondo valle. La rinascita di Orvieto si legò al momento del disgregamento dell’Impero, perché con le mutate condizioni politiche e di sicurezza la città insieme agli altri centri di altura, acquistò di nuovo un ruolo decisivo su tutto il territorio, nel senso che le ripetute e successive ondate di invasioni barbariche (Visigoti, Goti e Longobardi) costrinsero le popolazioni a rifugiarsi sui colli ed erigere un sistema di complesse fortificazioni. È così che, tra il V e il VI secolo d.C., gli abitanti di Volsinii novi (attuale Bolsena) tornarono ad abitare nel loro vecchio insediamento dal quale erano stati cacciati in età romana. La presenza dell’alta rupe fu una garanzia sufficiente a difendere la città e a far nascere tutto quell’insieme di borghi e castelli che tutt’ora delineano la mappa del territorio e che hanno costituito il nucleo originario degli attuali centri dell’Orvietano. Con la diffusione del Cristianesimo, la nascita dei Comuni e il loro successivo assoggettamento allo Stato Pontificio non si verificarono eventi di gran rilievo se non un gran turbine di lotte interne e travagliate guerre politiche tra le varie famiglie di nobili locali, il tutto sotto lecita regia della Chiesa. In effetti, se da un lato il Papato mise in una condizione di lungo oblio la zona, divenuta meta di villeggiatura di molti pontefici e cardinali, è anche vero che i Papi contribuirono in maniera consistente alla fama e all’apprezzamento dei vini di Orvieto. In particolare, nel Medioevo e nel Rinascimento fu uno dei vini preferiti alla corte Pontificia, trovando tra i numerosi estimatori senza freni anche papa Paolo III Farnese e papa Gregorio XVI. Fino alla fine del ‘700 non si verificarono eventi di rilievo, solo in seguito gli echi della Rivoluzione francese determinarono un certo risveglio culturale concretizzatosi nel 1860 con l’ammissione di Orvieto nel Regno d’Italia. Il vino orvietano, che fin dalle origini fu nero e corposo, si produceva in ampi e floridi appezzamenti vitati, persino sulla stessa rupe, in orti di convivenze religiose dei nobili e dei numerosi ortolani, coltivatori diretti in città fin dai primordi del libero Comune. Tanto che la zona di piazza Cahen fino ad oltre la chiesa dei Servi di Maria era denominata “vigna Grande” e dietro il Duomo si apriva l’ampia zona coltivata a vigna. È opportuno sottolineare che molto prima dei filari, la vite era coltivata in alberata, pratica diffusasi in tutta l’Etruria, che consisteva nel coltivare il vitigno maritato a degli alberi vivi di sostegno, come olmi, ulivi e querce. Intorno alla metà del XVII sec. fu inserita la palizzata come sostegno delle viti, piantate, a partire da allora, intensivamente a filari. Con riferimento all’introduzione del vino Orvieto DOC nella tipologia “MUFFA NOBILE” si evidenzia che già nel 1933 il Prof. Garavini nella descrizione del vino d’Orvieto così detto “abboccato” fa riferimento agli scrittori italiani di enologia e riporta che alcuni ritenevano più gustoso l’Orvieto rispetti ai Sauterns, mancando in essi quel sapore di zolfo, che invece si riscontra quasi sempre in questi ultimi. Il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata si è avuto con il D.P.R. 24/10/1971. Successivamente a seguito di svariate ricerche condotte sull’adattabilità, sulle caratteristiche compositive dell’uva e sulla qualità dei vini ottenibili dai vitigni utilizzabili, e dopo un’attenta scelta anche in fase di assemblaggio, più conosciuto come “blend”, sono stati apportati svariati aggiornamenti e modifiche; l’ultimo del disciplinare di produzione evidenzia l’importanza del vitigno Grechetto, in misura minima del 60%, sulla composizione qualitativa e sensoriale dei nuovi vini Orvieto DOC: si presenta con colore giallo paglierino; sentori delicati e fruttati; gusto fruttato, tendente all’amarognolo nella versione secca, al contrario zuccherino, con finale di frutta candita nella versione dolce. Per quanto riguarda il Rosso orvietano DOC i vitigni principali sono, per almeno il 70%, Aleatico, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Canaiolo Rosso, Ciliegiolo, Merlot, Montepulciano, Pinot Nero, Sangiovese; il colore è un bel rosso rubino intenso, talvolta con riflessi violacei; all’olfatto abbiamo sentori di frutta rossa, vinoso intenso, talvolta erbaceo; al gusto prevale il fruttato, è un vino morbido, elegante, vellutato. La zona geografica è situata nell’ambiente collinare a sud ovest dell’Umbria, fino all’alto Lazio. L’avvio dello stretto binomio “coltivazione della vite-produzione di vino” pare risalire al X sec. a.C., quando gli Etruschi conquistarono la scoscesa rupe e fondarono l’antica Velzna. Si ritiene, infatti, che proprio questa civiltà abbia intuito che la particolare costituzione del masso tufaceo era favorevole alla lavorazione e alla conservazione del vino, dando vita a un primordiale sistema di vinificazione chiamato “a tre piani”. Nelle cantine l’uva si pigiava a livello del suolo e il mosto, attraverso apposite tubature di coccio, colava nei locali sottostanti in cui fermentava. Dopo la svinatura, il vino si trasferiva a un livello ancora più profondo, adatto per la maturazione e il lungo affinamento. Questo sistema di gallerie sovrapposte, spesso ventilate dalle bocche aperte sui costoni della rupe, garantiva sicuramente la qualità di un prodotto amabile, frizzante e molto piacevole, soprattutto se confrontato con altri vini dell’epoca. Velzna conobbe un notevole prestigio tra l’VIII e il VI sec. a.C. in virtù della sua centralità all’interno dell’Etruria che ne facilitò lo sviluppo economico grazie agli scambi commerciali che poteva intrattenere con gli altri centri. A tutto ciò fece riscontro un analogo sviluppo sociale, urbanistico, artistico e demografico, come è ampiamente documentato dai numerosi ritrovamenti archeologici. Il territorio in esame è interessato da affioramenti di una quindicina di formazioni geologiche che possono essere raggruppate secondo uno studio di Calandra e Leccese del 2004: argille e argille sabbiose; colate laviche di varia natura, colate piroclastiche, concrezioni travertinose; sabbio – ciottolose, depositi alluvionali; sabbie gialle con livelli di conglomerati talvolta cementati e di arenarie grossolane, sabbie e sabbie argillose da salmastre a litorali, sabbie e sabbie argillose con intercalazioni di ciottolate fluvio-deltizio. Dall’analisi delle precipitazioni emerge una maggiore piovosità in autunno, con il 35-36% delle piogge totali, e massima intensità in ottobre e novembre. Questi eventi, soprattutto in ottobre, possono arrecare disturbi alle operazioni di vendemmia, e in modo particolare in presenza di vitigni tardivi e di vigneti esposti a nord. Al contrario, il periodo estivo è caratterizzato da scarse precipitazioni (luglio e agosto con medie di 33 e 40 mm di pioggia) che, potenzialmente, possono creare problemi di carenza idrica, soprattutto in alcune tipologie di suolo con scarsa capacità di ritenzione idrica, in ogni caso le precipitazioni medie annue si attestano tra i 700 e i 1000 mm di pioggia. I valori di temperatura dell’aria mostrano un andamento sostanzialmente ordinario con i massimi termici in corrispondenza dei mesi estivi e i minimi in quelli invernali. Nel periodo di pre-vendemmia si registrano temperature più basse rispetto al periodo precedente e ciò contribuisce alla migliore evoluzione qualitativa aromatica e polifenolica delle uve. I valori medi minimi di temperatura sono riscontrati in gennaio (6,4°C a 5,5°C) e in dicembre (6,7°C e 6,4°C).